Un testo di Fabrizio Venerandi

In Esiste la ricerca27 Novembre 20247 Minuti

Fabrizio Venerandi

By MTM

Fabrizio Venerandi

da Blocchi

 

Io ho una specie di lingua dentro alla testa, non so se c’è sempre stata, ma in questo ultimo periodo è diventata sempre più grossa e umida. Questa lingua parla, continuamente, parla, mi dice le cose che sto pensando e poi inizia a dettarmi le cose che devo scrivere mentre me le detta capisco che quella lingua non sono io.

Quella lingua mi detta le cose che sto pensando e io, che sono una cosa diversa, prendo e trascrivo. È come un muscolo aggiuntivo dentro alla testa con cui convivo e che anche adesso mi sta dicendo cosa scrivere, non ha pudore di parlare di sé.

Non sempre mi detta, a volte parla e basta. Inizia a interpretare le cose che devo dire, si immagina scene di cose che devono succedere e – senza che io me ne renda conto – fa queste rappresentazioni teatrali di miei possibili futuri, popola stanze di personaggi, anche loro parlano con la sua lingua, e io inizio a parlare con la sua lingua.

Le scene si moltiplicano, si ripetono, si aggiustano, vengono perfezionate, crollano sotto il peso della lingua che di queste cose si nutre, più crea materiali con la sua voce, più divora l’attenzione del mio cervello, più ingrassa e crea ancora nuove voci, nuovi discorsi, nuove messinscene.

Io non ho controllo su questa lingua, non so se sia sempre stato così, ma ora mi rendo conto che non posso farla smettere. È sufficiente che io mi distragga per un attimo, che smetta di sorvegliarla, e quella lingua riprende a parlare, a fare uscire – dentro di me – le sue voci. Quando me ne rendo conto ormai è troppo tardi, ho la testa piena di gente che parla, futuri possibili o, più raramente, riscritture grottesche del passato.

Qualche giorno fa ero in moto e mi sono reso conto che stavo guidando ma dentro la mia testa la lingua era frenetica, stava producendo un rumore infernale di possibili parole, di sintassi e allora ho urlato, “volete stare zitte maledette voci!”. Mi sono spaventato, per un attimo la lingua non si è mossa.

È stata un po’ un’epifania, un’agnizione: avevo una lingua nella testa e non ero io. La lingua era rimasta scossa, era dispiaciuta. La lingua, lo so, fa così perché pensa di aiutarmi. Pensa che muoversi nella mia testa, costruire i miei possibili futuri con le mie parole, sia un modo per dominare l’incertezza.

Per darmi sicurezza la mia lingua sta raccontandomi quello che mi deve ancora succedere, in modo che io sia pronto e possa allenarmi, ma la mia lingua sa anche che tutte quelle parole sono solo un racconto, non sono quello che dirò veramente: i sosia delle persone reali che popolano la mia testa e che la lingua fa parlare non sono addomesticabili.

Per questo la lingua torna indietro, immagina percorsi diversi, possibili variazioni e le racconta di nuovo, incessantemente.

Ingrassa giorno dopo giorno, non smette mai di parlare, detta a me che sono una forma sempre più incorporea e muta, sono lì a cercare di vedere cosa mi circonda in quel momento, ad evitare i fantasmi dello storytelling morboso che quell’organo geniale e logorroico continua a secernere come una glassa ammorbante ed incandescente.

La sua voce è ininterrotta e ha una sua coerenza, le sue biforcazioni e le sue allucinazioni seguono una logica malata. Quando mi detta io scrivo e cerco di fare emergere la seconda voce, quello che sono io. La parte del mio corpo che non è più la lingua che tengo nella testa. Seziono quello che la lingua dice. Come se lo mettessi su un tavolo. Alzo il braccio e lo abbasso con forza, stacco.

I pezzi di narrazione si contorcono, sono come feriti, ma affascinati da questa nuova loro forma. Prendo pezzi diversi, li accosto. Tiro fuori cose che non sento. Che non sono successe e che non succederanno. Respiro. Avvicino a questo biascicare della lingua cose che la lingua non ha detto. Infilo dentro cose che hanno una loro vita autonoma. Sono brandelli di letteratura. La luna è un grave che non vedo, ora, sopra la massa delle nuvole.

Mi allontano da me e da quella lingua che vorrebbe continuare a inventare. Non mi chiedo chi sono io, non ci sono mai arrivato. So che lei non sono io. So che posso produrre cose che non sono lei. Chi ti sta raccontando questa frase che hai sotto agli occhi. Il narratore. Il suo muscolo nascosto nella testa che si scalda, si bagna tutto. Che cosa ti sto raccontando.

Tante lingue fanno rumore, nella testa delle persone. Cosa fa lo sciame, ronza. Viene ronzato. Lo sciame si muove, le loro lingue, dentro, si muovono interrottamente. Raccontano il loro ronzare, il loro muoversi, le lingue raccontano la consistenza dei loro muscoli, da dove vengono, chi sono state prima.

Il grande racconto familiare allaccia la generazione precedente a questa, i padri ai figli, le madri ai figli, le femmine tra di loro come una ragnatela che arriva poi fino a noi. Sparizione dell’autore all’interno del racconto, riapparire dell’autore, ecco ora sparisce di nuovo. Millenni di letteratura e lo scrittore non ha trovato niente di meglio che giocare a nascondino.

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