In Esiste la ricerca22 Luglio 202414 Minuti

Pasquale Polidori, Appunti per il simposio “La linea d’ombra”

By MTM

Pasquale Polidori

Appunti per il simposio “La linea d’ombra”

 

(Questi appunti sono inediti e hanno la natura dei bozzetti. Sono estratti dal
percorso di preparazione di La linea d’ombra, un simposio in quattro
appuntamenti che si è svolto al museo Macro Asilo nel 2019 a Roma, e
riordinati per il blog di Esiste la ricerca.)

 

[appunto teorico #1: innaturalità della pittura nello spazio conclusivo]

è naturale la vita senza la morte, no, e dunque è naturale la pittura senza una fine, no, è naturale la pittura senza pensare alla fine, no, è naturale la pittura pensando la fine già avvenuta, no, è naturale la pittura pensando la fine non già avvenuta, no, è naturale la pittura pensando di smettere di pensare alla fine, no, è naturale la pittura analizzando il momento in cui si sta pensando alla fine, no, è naturale la pittura facendo altro invece che analizzare il momento in cui si sta pensando alla fine, no, è naturale la pittura credendo di poter fare finta di continuare a fare altro invece che analizzare il momento in cui si sta pensando alla fine, no, è naturale la pittura facendo finta di non pensare alla fine, no, è naturale la pittura facendo finta di pensare alla fine, no, è naturale la pittura ripetendo la fine, no, è naturale la pittura dando inizio alla fine, no, è naturale la pittura aggirando l’ostacolo costituito dall’evidenza dell’inizio della fine, no, è naturale la pittura rovesciando il concetto di fine in funzione di uno spazio esclusivamente e infinitamente generativo, no, è naturale la pittura credendo di sopprimere alla radice l’emergere predestinato di uno spazio conclusivo, no, è naturale la pittura nel patimento della circostanza della inevitabilità di uno spazio conclusivo, no, è naturale la pittura nella conseguenza del dilagare della materia nello spazio conclusivo a spese delle forme, no, è naturale la pittura nella ricerca ostinata e velenosa di assurde spiegazioni al crescente dilagare della materia che fa ormai da destino a ogni pensiero e comportamento, no, è naturale la pittura non potendosi più dare forma ma dovendo comunque organizzare la risposta all’appello disperato della malattia dei linguaggi, no, è naturale la pittura essendo costretti a restare nello spazio conclusivo del dilagare predestinato e inarrestabile della materia a non poter non ascoltare la voce pietosa ridotta a un filo inconcepibile dei linguaggi malati, no, è naturale la pittura nell’infinita non morte dei linguaggi malati e per ordine estetico confinati nelle zone più estreme della realità, no, è naturale la pittura nella metafora della malattia dei linguaggi in generale i quali da una parte smateriandosi o dall’altra immateriandosi non fanno in ogni caso che ripetere lo schema doloroso della fine delle forme nello spazio necessariamente e inevitabilmente conclusivo, no, è naturale la pittura in una realità che ha perso ogni contrario nello spazio in cui dilaga la materia senza nessuna speranza di una forma per via della malattia dei linguaggi, no, è naturale la pittura in una realità impazzente di sé per dilagamento della materia posseduta di sé, no, è naturale la pittura che per estrema miseria e desertificazione dell’espressione dovuta alla malattia dei linguaggi sta nello spazio obbligatoriamente conclusivo circondata dalla materia dilagante che non lascia sperare nell’arrivo di una definizione e né nell’abbandono di una definizione come una vergine delle rocce che ovunque le pesano le rocce, le rocce concettuali, le rocce materiali, no

 

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[appunto teorico #2: organizzarsi in direzione della fattibilità dell’azione]

… numero due, sopra-esistenza del pensiero ordinativo, numero due (a), distanza semantica nell’ambiente, numero due (b), otticità dei volumi, numero due (c), allineamento fenomenico, due (c) primo, temporalità indotta o finzione narrativa, due (c) secondo, tentativo punto abbandono punto tentativo, due (c) terzo, crisi del passo e disvenienza del doppio tempo, numero due (d), creare raggruppamenti sulla base di nuovi criteri, numero tre, con tutto il misurare che ci impegna, numero tre (a), espandere fino al limite, numero tre (b), mancare, numero tre (c) spazio spaziato e durante durato, numero quattro, poter contare sul fare, numero quattro (a), fare assoluto senza orizzonte, numero quattro (b), fare in direzione di un eventuale paesaggio, numero quattro (c), fare e agire, quattro (c) primo, fare in sospensione dell’atto, quattro (c) secondo, fare sprofondando nell’atto, quattro (c) terzo, fare lateralmente all’atto, numero cinque, illusione del come se, numero cinque (a), come se esser-molto, numero cinque (b), come se esser-essere, numero cinque (c), come se esser-poco, numero sei, partecipare senza definizione, numero sette, indicare una possibile sistemazione di sé in quanto ready-made, numero otto, discutibilità delle misure, numero otto (a), misura come giudizio dell’operare, numero otto (b), misura come al di qua dell’opera e chimera del finito, numero otto (c), misura come appuntamento posizione statura, numero nove, riaprire l’oggetto alla sua generazione, numero nove (a), diminuzione ordinata degli elementi, numero nove (b), cose pensiero cose pensiero cose pensiero all’infinito ovvero tentando di dar luogo a un infinito, numero nove (c), assorbimento dei nomi nello spazio, numero dieci, contenuto e mistero, numero dieci (a), magritte, numero dieci (b) …

 

 

[racconto breve #1: la cosalità non è finita]

arriva in galleria con due tele e una decina di disegni, non fa una mostra da cinque anni, l’ultima volta una partecipazione a carattere immateriale, immateriale per via del fatto che nello spazio non è insinuata come localizzabile e riferibile a un sistema la materia disciplinata ordinativa dei valori dell’interpretazione del possibile espressivo, e non c’è altro che un vaso normale con una pianta verde d’appartamento normale senza fiori e una lampada a 300w normale e la sedia normale su cui lui sta seduto a leggere (un libro di antropologia), dove le parentesi poste all’oggetto sono parte del discorso e garanzia della immaterialità delle componenti oggettuali, e pertanto la collocazione dell’atto è tale che il vaso la pianta la lampada il libro e la sedia non sono contati nella materialità ma invece nella cosalità, cosalità che implica una certa prossimità col pavimento, mancanza accordata di sostegni semantici, compresi i chiodi se i chiodi garantiscono il transito del dicibile, e quella è l’ultima volta, in seguito a quella volta decide di abbandonare la cosalità, riprende a dipingere, fa due tele e tre quattrocento disegni dai quali appunto un giorno estrae un esiguo nucleo organico che fa riferimento a un medesimo concetto, e dunque arriva in galleria con le tele e i disegni, la persona gli apre la porta, si salutano, lui domanda, qual è il posto assegnato, la persona risponde, nella stanza di fronte all’ingresso, le due tele accostate all’angolo e poggiate per terra, i disegni nella parte più in alto della parete, e lui domanda, sei sicuro che le due tele non vadano appese mi sembra che a poggiarle per terra ci sia come un tradimento, e la persona sinteticamente risponde, certo che sono sicuro, adesso si fa così, la cosalità non è ancora morta …

 

 

[racconto breve #2: l’esposto non ultimabile]

… il lavoro esposto al museo non può considerarsi ultimato, nel senso che indubbiamente il lavoro rappresenta l’assunzione di un punto di vista, che consiste in una precisa modalità di comportamento, dove il comportamento è da intendersi come una chiave di lettura esistenziale (corporale non si dice) delle radicali questioni estetiche che si pongono, che si pongono evidentemente, che si pongono assolutamente o relativamente, in altri termini la costrizione a interpretare, a interpretare il filosofico (diamo per scontato e generico il filosofico, come minimo il filosofico) attraverso gli atti, quando gli atti sono sostenuti da una progettualità, anche verbale, che in tutti i sensi sostituisce il disegno, e dunque ogni questione può/deve risolversi letteralmente in un certo modo di stare in piedi, quando scegli se, per esempio, tieni i piedi su un foglio millimetrato o su una tela o su un libro, e anche l’oggetto che tieni in mano significa l’indirizzamento del senso, ossia la costrizione dello sguardo, una pena, uno scartare continuo, essendo acquisito il principio che proprio nel visivo l’assunzione di un punto di vista non equivale tanto all’apertura di una prospettiva di un percorso che ti caratterizza, ti individua, ti fa consistere sotto forma di linguaggio in opera all’interno di una comunità (la parola comunità occorre come variabile retorica onorevole di altre parole tutte da vergognarsi, ma lui non la condivide), quanto anzitutto l’assunzione di un punto di vista implica la promessa di una chiusura, cioè l’indicazione (anche non esplicita, anche rinviata a un secondo tempo, anche data per impossibile, ma: data) di una ultimità, e nient’altro che questa è la prospettiva che ti comprende e che comprende i tuoi atti interpretativi, alla luce dei quali la prospettiva consiste nell’assicurazione di una morte per misura, per calcolo, per insieme ponderato di ombre e di profili …

 

 

[poesia contro l’idea #1 (poesia d’amore): addormentare una piccola opera d’arte con il volto rigato di lacrime]

cucciola cucciola cucciola della materia occasionante,
del segreto della materia occasionante, della semplice autocoscienza del segreto della materia occasionante,
della sguardante autocoscienza del segreto della materia occasionante, della protrazione della sguardante autocoscienza del segreto della materia occasionante,
frutto della sbadanza dell’essere, dell’accuratamente studiata sbadanza dell’essere,
posta teneramente al riparo dall’accadenza dell’idea, dalla crudele formanza dell’idea,
l’idea è cattiva, cattiva, cattiva
l’idea che ti disse: mettiti qui, disponiti qui, estenditi qui, inizia in questo punto, in quell’altro finisci, tu esisti da qui a qui, tu fai così e così, eccoti le misure, eccoti la materia
l’idea che ha fatto male all’opera cosale
l’idea che dà il veleno all’opera in generale
l’unica idea buona è l’idea morta

 

 

[poesia contro l’idea #2 (poesia filosofica): scacciare le idee, la metafisica delle idee avvelena l’opera]

cogiacenza a tutti i costi tra questa e quella cosa, paralisi dei limiti,
vestito troppo largo vestito troppo stretto, taglio del corpo dell’opera,
l’idea dell’opera ripara in tal modo l’inconcepibilità dell’opera,
in tal modo ovverosia: attraverso il suo porsi e riproporsi come unica strada plausibile
alla scorporatura dell’opera, scasamento, abbandono del pensiero da parte dell’opera

immagine: sul pavimento, al centro della stanza, l’opera sta senza corpo, e tutti per questo la credono misera, e tutti per questo la compiangono e invocano l’arrivo delle idee, tutti sono convinti che le idee salveranno l’opera dalla sua scorporatura, dalla crudezza del suo essere stante senza corpo al centro della stanza, sul pavimento

arrivano le idee, ordinatamente le idee, abituate filosoficamente a fare la fila, prima questa, poi quella, poi quell’altra, ma poi alla vista dell’opera ogni idea vuole la sua parte

idee non spingete, idee fate la fila pazientemente, per favore idee rispettate la fila, andiamo, non sporgetevi oltre il limite oggettuale, lasciate agire la materia, su, idee non accanitevi, lasciate in pace la realtà materiale, ma che vi ha fatto di male, idee, su, abbandonate l’opera alla sua felice inconcepibilità, idee, mollate l’osso dell’opera una volta per tutte, stramaledette guardiane metafisiche